L'immigrazione nel cinema italiano

"Quaderni del CSCI", a cura di D. Aronica, Barcellona, 2012

1. Visibilità

Diceva un importante migrante, uno scrittore marocchino che vive in Francia,  Tahar Ben Jelloun: “Gli immigrati non sono fotogenici”. Nel senso che la loro immagine,  anche quando appare, anche quando è addirittura sovraesposta, come spesso accade sui media, non dà mai conto della loro identità, non è mai vista in termini positivi, ma soltanto negativi, proprio come il negativo di una immagine fotografica. L’immigrato non è fotogenico nel senso che non viene mai rappresentato in maniera corretta: o è poco visibile o è fin troppo fotografato. Come se la sua immagine non avesse spessore, anche quando è presente, anche quando riempie i nostri giornali, le nostre televisioni,  la nostra testa di paure, la nostra anima di preoccupazioni. Rappresentato ad una sola dimensione, quella d’essere immigrato, lo straniero sembra non avere consistenza: non importa sia uomo o donna, vecchio o bambino, colto o analfabeta, rimane invisibile dal punto di vista sociale; ma lo è, nei fatti, anche per le istituzioni, che non ne riconoscono i diritti, non lo considerano parte della cittadinanza italiana, o europea; che gli chiedono continuamente, anche dopo anni che è integrato nel tessuto sociale del paese d’accoglienza, il ‘permesso di soggiorno’.

E’ come se l’identità del migrante fosse schiacciata su quel foglio di carta: dove, appunto, si trova la sua immagine, dove è stabilito qual era il posto dove doveva stare e gli viene concesso di stare in un altro posto; un posto che non è il suo, che gli viene continuamente ricordato non essere il suo. Ecco perché occorre sempre farlo vedere, questo permesso di soggiorno, occorre mostrare continuamente questa identità precariamente conquistata. Schiacciato sulla sua identità di carta il migrante perde, e occorre rendersene conto, gli elementi fondamentali della sua stessa umanità. Non è più una persona, diventa un immigrato extracomunitario: parole che unificano persone che spesso non hanno niente in comune, persone che vengono da mondi diversi, e che sono diverse tra loro, sono giovani o sono vecchi, vengono per lavorare o per scappare, vengono per studiare, o magari per amare. Parole – o immagini, quelle d’un film o di un servizio televisivo – che impediscono ogni spessore, ogni possibilità di riconoscersi, di esprimersi, di emergere: e come si fa, infatti, ad uscire da un’identità cosi’ unidimensionale?  Lo sradicamento che il migrante avverte, non è soltanto fisico; è quello di chi non ritrova più nemmeno la propria unitarietà, la possibilità di essere riconosciuto come una persona intera: non soltanto il frammento che viene preso in considerazione,  il lavoratore che serve alle imprese, il criminale che emerge dai media, quella riduttiva parte di sé che in qualche modo è accettata e trascritta su quel foglio di carta, su quella immagine del telegiornale. L’identità migrante in questa prospettiva si definisce come un’identità ‘senza’ qualche cosa, non si definisce come un’identità che esprime qualche cosa. Anche le parole lo dicono: l’extracomunitario non è definito da quello che è, ma da quello che non è.

2. Diversità

In Internet, nel dizionario dei sinonimi di Word 6,  meticcio è sinonimo di “ibrido, incrociato, bastardo”,  mentre occidentale –  per questo simpatico dizionario del terzo millennio – significa invece “bianco, colto, civilizzato”.  Se questo è il linguaggio dei new media, si può immaginare quale sia il lessico diffuso dai vecchi media, giornali , televisione e cinema. Per gli immigrati, hanno grande successo termini coloriti e densi di connotazioni dialettali e blandamente negative, come vu’ cumprà; che poi rimanda alla tradizionale identificazione tra immigrato e braccia da lavoro che in Germania aveva dato luogo al significativo gastarbeiter (lavoratore ospite), che fa ben trasparire l’intenzione di rimandare a casa l’”ospite” appena finito il suo lavoro. In tempi di politically correct si preferisce il già citato, apparentemente asettico extracomunitario: che non solo contiene in sé il concetto stesso dell’esclusione; ma che comunque, oltre a definire per negazione, rafforza l’immagine di un gruppo omogeneo e indistinguibile di ‘diversi’.  E' in questo modo che i media rafforzano e diffondono certi luoghi comuni, arredamenti di uno spazio mentale angusto, chiuso tra le pareti del pregiudizio, incapace di guardare fuori di sé.  Stereotipi che servono a rassicurarci, come accade nella pubblicità o nelle narrazioni del telegiornale: ma che trovano spazio,  e forza persuasiva, soprattutto nella fiction, negli sceneggiati, nei telefilm, nei film.

In un intervento sul  <<manifesto>> (1) alcuni anni fa, avevo definito con l’espressione  "immigrato elettronico" l’immagine dello straniero proposta dalla televisione: una figura, appunto, senza dimensioni né spessore individuale, costretta a compiere gesti ripetitivi, abitare sempre gli stessi 'non luoghi', vivere sempre gli stessi disagi, creare sempre gli stessi problemi: l'immigrato, che in televisione è quasi sempre maschio e di colore preferibilmente scuro, arriva, arriva sempre, anche se magari è in Italia da vent'anni; si aggira smarrito in qualche stazione, anche se è residente, ha da anni un lavoro  e una casa come tutti; mostra il passaporto alla polizia, anche se possiede una carta di soggiorno e forse è già cittadino italiano; agita le sue braccia da lavoro per tentare di pulire qualche parabrezza ai semafori, anche se è diplomato e svolge una regolare professione; dorme sotto i ponti, o in baracche senza tetto, anche se può pagarsi un appartamento decente.

Il ruolo dei grandi mezzi di comunicazione è stato spesso di supporto alla gestione del potere e dei rapporti di forza con i soggetti più deboli. Oggi questo squilibrio è ancora più forte e evidente, ma soprattutto è gestito in modo più raffinato e sofisticato: per esempio, appunto, attraverso l'utilizzo di categorie, stereotipi, pregiudizi che non solo diventano uno schermo, un filtro che non ci fa comprendere la realtà; ma servono – più o meno consapevolmente – ad escludere, a stigmatizzare il diverso. In questo senso il ruolo dei media è nevralgico: perché invece di aiutarci a conquistare  consapevolezza, a fare i conti con l’alterità, a superare l’etnocentrismo, a smettere di vedere tutto il mondo solo nella prospettiva del nostro sguardo e dei nostri interessi, in questa fase di crisi economica e identitaria dell’Occidente vengono gestiti per perpetuare l’emarginazione,  per creare nuovi strumenti di divisione.  Siamo insicuri, e i media ci aiutano a trovare quelli con cui ce la possiamo prendere: capri espiatori. Ci aiutano a trovare persone più a Sud di noi, più poveri di noi, più negri di noi: l’etnicizzazione proposta dai media in maniera continuativa e insistente, è uno degli strumenti classici per mantenere le differenze, per inventarsi avversari, per costruire nemici.

3. Schermi

 

L’immaginario cinematografico occupa un posto importante nella diffusione dei pregiudizi, nella creazione degli stereotipi, nell’elaborazione di quello che si definisce, appunto, l’immaginario razzista. L’egemonia del plot hollywoodiano, con il dualismo protagonista/antagonista, buono vs cattivo, cappelli bianchi e neri, indiani e cow boy – con forte stereotipizzazione dei caratteri etnici non wasp, caratterizzazione degli attori, dei volti, ecc. – è particolarmente influente sulla lettura dei conflitti culturali, chiave del cinema sui temi dell’immigrazione: con la costruzione del nemico, le giustificazioni per la discriminazione, ma anche la lotta per il riconoscimento della diversità, i diritti delle minoranze, l’inclusione sociale, il dialogo tra culture.

Questo rende il cinema particolarmente interessante per una lettura interculturale: da una parte, si tratta di comprendere  che cosa si nasconde dietro certe immagini, imparare a smontare la macchina, svelare il meccanismo, analizzare il messaggio celato, più o meno consapevolmente, dietro lo schermo. Può essere lo schermo di una fascinazione  più o meno intrisa di esotismo, lo schermo d’una ammirazione che convive con la paura e il disprezzo, lo schermo di una pietà facile a trasformarsi in pietismo; o lo schermo di uno scherzo apparentemente innocente, ma in effetti mezzo potente di radicamento dello stereotipo. Il secondo obiettivo di un’analisi interculturale, in questo senso, è l’acquisizione di una maggiore consapevolezza critica: metterci in grado di riflettere su come la nostra identità sia legata al confronto e al rispetto per l’identità degli altri.

Parliamo quindi di “schermi” del razzismo (2) con un doppio significato: da una parte, il riferimento è proprio agli schermi grandi e piccoli, quello del cinema e quello del nostro televisore casalingo, che ‘riflettono’, o rispecchiano – in una rappresentazione che è sempre mediazione, montaggio, scelta, selezione, interpretazione della realtà – le contraddizioni del nostro vivere sociale, i conflitti tra culture, l’insorgere dei pregiudizi; rinforzando, o viceversa combattendo, la formazione degli stereotipi legati appunto alle differenze di colore, linguaggio, mentalità, valori.                       Schermi che riflettono, ma anche schermi che nascondono. Nel secondo significato, infatti, schermo è quello che viene interposto tra l’immagine rappresentata e le idee – buone o cattive – che si intende far passare. In questo senso gli schermi ingannano, o comunque parlano un linguaggio non sempre chiaro: a volte volutamente criptico, altre volte semplicemente ambiguo, di non facile decodificazione. Il tema è proprio l’analisi della rappresentazione cinematografica della problematica razzista (3), con la proposta di strumenti per la decodificazione del linguaggio cinematografico stesso.

 

4. Memoria

L’immigrazione in Italia è stato un fenomeno carsico per almeno 15 anni: dalla metà degli anni ‘70 – quando per la prima volta il saldo migratorio ha visto più entrate che uscite dal nostro paese – alla fine degli anni ‘80, quando finalmente il fenomeno emerge: prima timidamente, sulle pagine di cronaca di qualche giornale, poi con più forza, soprattutto in televisione. E in mancanza di dati  certi, informazioni accurate e analisi approfondite, finisce per gonfiarsi ed eplodere, passando rapidamente da nuovo, interessante fenomeno a emergenza nazionale.

Anche il cinema non ha dato visibilità al fenomeno dell’immigrazione fino ai primi anni ‘90: eppure siamo stati a lungo un popolo di emigranti, e l’esperienza ha dato luogo anche a opere d’un certo valore e spessore; che ci hanno aiutato  in modo significativo a non rimuovere del tutto il nostro passato. Il supporto di quelle immagini dovrebbe aiutarci a capire la somiglianza di certe situazioni, e darci la capacità di identificarci con le donne e gli uomini che arrivano oggi sulle carrette del mare: con gli stessi occhi, le stesse speranze, e zainetti molto simili alle nostre valigie di cartone.  Quelle sequenze, come l’arrivo dei bastimenti a New York,  sono entrate con prepotenza nell’immaginario (4): pure non sono servite da specchio del presente, non ci hanno permesso – tranne che in qualche opera più riuscita – di riconoscere negli immigrati di oggi gli italiani di ieri.

Insomma il cinema, almeno finora, ci ha aiutato meno a comprendere il nuovo fenomeno dell’immigrazione, il suo rapporto stretto con la globalizzazione, l’interdipendenza, il mondo interconnesso in cui viviamo. In parte questo dipende dal fatto che, mentre il cinema sull’emigrazione (pur non essendo mai diventato, come qualcuno ha notato, un ‘genere’, e non avendo prodotto un numero rilevante di titoli) aveva rispecchiato la drammaticità e l’intensità di quell’esperienza, trasmettendo tutto il pathos della nostra storia d’emigrazione, è come se la maggior parte degli autori che si sono cimentati sul tema dell’immigrazione sfuggisse dalla drammaticità e dalla forza del problema. E preferisse – con alcune eccezioni, naturalmente –   l’approccio soft, minimalista, “carino”, di tanto (troppo) cinema italiano degli ultimi dieci anni: scegliendo spesso di parlare, con i toni della commedia, di coppie miste o di quartieri  multietnici; o avventurandosi nel registro grottesco, di difficile gestione, con risultati poco brillanti.

 

5. Film

Tra i primissimi esempi di interesse verso i temi dell’immigrazione e dei rapporti interculturali nel cinema italiano, si possono segnalare due film piuttosto lontani tra di loro, anche se legati da un’analoga struttura: Nerosubianco, di Tinto Brass, del 1968, nel quale un’italiana frustrata scopre le gioie del sesso con un immigrato nero nella swinging London degli anni Sessanta.  E L’altra donna, di Peter del Monte, del 1980, nel quale l’incontro è tra due donne, una ricca borghese e una immigrata etiope, alla ricerca di nuovi valori e di nuovi rapporti.

Ma è del 1989 il film che inaugura davvero il tema della nuova immigrazione in Italia, anche se con risultati molto discutibili: Il colore dell’odio, per la regia di Pasquale Squitieri, storia dell’amore osteggiato tra un immigrato marocchino (interpretato peraltro da un attore italo-somalo, Salvatore Marino) e la figlia del suo datore di lavoro, che  si conclude drammaticamente.

Più interessante Pummarò, del 1990, coraggiosa opera prima dell’attore Michele Placido: un giovane ghanese sbarca in Italia con altre decine di ragazzi africani, ma non cerca lavoro: vuole solo rintracciare il fratello maggiore, scomparso nelle campagne del casertano. La sua è una discesa all’inferno, un viaggio nell’Italia dello sfruttamento e del razzismo: conosce il lavoro nero, l’umiliazione dell’emarginazione, la discriminazione sociale. Nei suoi limiti, un documento onesto dell’Italia che comincia a confrontarsi con il fenomeno immigrazione.

Negli anni ’90, con l’emersione del fenomeno, come abbiamo detto, diversi autori si accostano al tema immigrazione (5), costruendo un piccolo filone di film sentimentali, interessanti, ma non particolarmente incisivi: da Un’anima divisa in due (1992), di Silvio Soldini, che racconta l’incontro tra due culture difficilmente compatibili, quelle di un giovane italiano e di una ragazza nomade, a  L’art.2  (1993), di Maurizio Zaccaro, incentrato sulla storia vera di un immigrato musulmano nei guai con la legge italiana per via della sua poligamia; da Cominciò tutto per caso, sempre del 1993, di Umberto Marino, in cui la crisi d’una coppia borghese italiana si incrocia con il timido amore tra un idraulico e una domestica filippina, a Vesna va veloce (1996), di Carlo Mazzacurati, il ritratto di una ragazza cecoslovacca arrivata in Italia con un pullman turistico, che dopo aver deciso restare in Italia, senza mezzi, finisce per darsi alla prostituzione per sopravvivere.

Di maggior spessore, nello stesso periodo, Lamerica (1994) , di Gianni Amelio, che seguendo il viaggio d’un ragazzo e di un anziano uomo d’affari che cercano fortuna in Albania e finiscono per tornare in Italia su un barcone di immigrati, offre il ritratto  efficace di un’umanità sconfitta e avvilita. Altro lavoro di grande interesse Intolerance (1996),  un film girato a più mani nei due formati (cinematografico e televisivo): un vero e proprio progetto (6), che ha coinvolto nomi noti e meno noti del cinema italiano in un’opera collettiva, una raccolta di cortometraggi d’autore in cui si descrive, si denuncia e si gioca sulla diversità in tutte le sue forme.

Negli ultimi anni Novanta si riprende anche, probabilmente proprio in ragione della nuova esperienza dell’immigrazione, il lavoro di riflessione sull’emigrazione italiana all’estero, con diverse opere di buon livello, tra cui Un sogno perso di Pasquale Scimeca (1992), Così ridevano, ancora di Gianni Amelio (1998), La leggenda del pianista sull’Oceano di Giuseppe Tornatore (1998), e il più recente Nuovo mondo, di Emanuele Crialese (2006).

Dopo la fase dell’emersione del fenomeno immigrazione, invece, negli ultimi dieci anni l’attenzione del cinema italiano verso il tema diminuisce, anche se non mancano opere di qualità: Quando sei nato non puoi più nasconderti , un film del 2005 diretto da Marco Tullio Giordana, racconta di un bambino che,  caduto in mare durante una crociera, viene raccolto da un barcone di immigrati clandestini: corre il rischio di essere identificato dagli scafisti e sequestrato per un riscatto, ma un clandestino rumeno lo  salva, facendolo passare per un orfano curdo.  Il vento fa il suo giro (2005), di Giorgio Diritti, è ambientato in una piccola comunità occitana delle Alpi Orientali, stravolta dall’arrivo imprevisto di una famigliola francese. Io, l’altro (2006), di Mosehn Melliti, apologo sul pregiudizio e la paura dell’altro, vede per la prima volta dietro la macchina da presa un regista straniero (tunisino) da tempo residente in Italia. Lettere dal Sahara (2006), l’ultimo film del veterano Vittorio De Seta, racconta le vicende di un ragazzo senegalese che arriva a Lampedusa, passa per il lavoro nero, e si confronta con una difficile integrazione. Le ferie di Licu (2007), di Vittorio Moroni, parla dello scontro tra la mentalità italiana e le tradizioni del paese d'origine di due giovani bengalesi.                                                                                                                            Tra i più recenti, Terraferma (2011), di Emanuele Crialese, sull’incontro tra gli abitanti di un'isola italiana e un gruppo di clandestini; Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (2010), per la regia di Isotta Toso, tratto da un libro divertente e intelligente dell’algerino Amara Lakhous,  che il film purtroppo dimentica per riprendere gli abusati registri della commedia all’italiana; e Cose dell'altro mondo, una commedia grottesca del 2011 diretta da Francesco Patierno – in cui si immagina che tutti gli immigrati in Italia scompaiano improvvisamente, lasciando nei guai l’intero paese – che come nel film della Toso tradisce, banalizzandolo, uno spunto molto interessante (7).

6. Autori emergenti

Tra i giovani, emergono con autorevolezza tre autori e registi, anche se molto diversi tra di loro: Matteo Garrone, Costanza Quatriglio e Andrea Segre. Garrone, diversi anni prima dell’exploit di Gomorra, aveva esordito nel 1996 con Terra di mezzo, tre episodi ambientati in quel territorio senza identità né diritti riconosciuti che vive ai margini della nostra società. Del primo episodio, Silouhette, sono protagoniste alcune prostitute nigeriane della periferia di Roma. Il secondo, Euglen & Gertian, racconta la storia due ragazzi albanesi. Il terzo, Self Service, la doppia vita di un uomo egiziano che lavora abusivamente presso un distributore di benzina. Anche il suo secondo film, Ospiti del 1998, è dedicato all’immigrazione: con il confronto tra due ragazzi albanesi, un emigrato sardo ed un benestante fotografo romano, inseriti nel contesto del quartiere romano dei Parioli. Lo sguardo di Garrone è particolarmente originale, lontano da qualsiasi stereotipo, e capace di illuminare diversamente anche ambienti che si credeva di conoscere bene.

Anche Costanza Quatriglio, pur dedicandosi soprattutto al cinema documentario, ha dimostrato sin dagli esordi una mano molto personale: e ha dedicato due docu-film ai temi e alle figure dell’immigrazione. La Borsa di Helene”(2002) è uno spaccato di vita urbana, venti minuti in una specie di bar di Palermo in cui convivono palermitani e africani, un microcosmo di emarginazione in cui si si mischiano dialetti e lingue straniere, odore di cibo, birra e fumo. Ne Il mondo addosso, presentato alla prima edizione della Festa del Cinema di Roma, nel 2006, la regista ascolta le storie di cinque giovanissimi immigrati in un Roma sommersa, che raccontano in prima persona le loro storie nell’incertezza dell’oggi e nella fatica di costruirsi un futuro. Tra l’altro, la Quatriglio è sposata con il regista Daniele Vicari, autore a sua volta del bel documentario Uomini e lupi (1998), sulla vita dei pastori macedoni immigrati in abruzzo, tra i pascoli del  Gran Sasso.

Andrea Segre, veneziano, è autore di film documentari molto intensi e coraggiosi sull’immigrazione e sui cosiddetti viaggi della speranza: A sud di Lampedusa, girato nel deserto del Sahara nel 2006, racconta la faccia nascosta di un'emigrazione di cui noi spesso vediamo solo l'ultima tappa, lo sbarco appunto nell'isola di Lampedusa.  Come un uomo sulla terra (2008), diretto con Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer, raccoglie le testimonianze dei migranti etiopi che attraversano il deserto tra Sudan e Libia e finiscono nelle prigioni libiche, prima di tentare la traversata verso l’Italia. Il Sangue Verde (2010), riprende i volti e le storie dei braccianti africani protagonisti delle manifestazioni che hanno portato alla luce le condizioni di degrado e ingiustizia subite in un piccolo paese della Calabria, Rosarno. In Mare chiuso (2012) alcuni profughi africani del campo di Shousha, al confine libico-tunisino, e in due centri per richiedenti asilo nel sud Italia raccontano in prima persona cosa vuol dire essere respinti. Anche al momento di passare alla fiction, nel suo primo lungometraggio Io sono Li, del 2011, Segre conserva la sua attenzione per le testimonianze, le storie delle persone, raccontando l’amicizia tra una giovane cinese che lavora in un’osteria di Chioggia e un pescatore di origini slave: incontro che mette in crisi le due comunità, sia quella locale che quella cinese.

Torna il tema dell’identità, del rapporto tra culture diverse, di una alterità in cui non sappiamo riconoscerci.

 

Note

(1) Massimo Ghirelli,  L’Immigrato elettronico, “Il manifesto Mese”, 1994.

(2)Massimo Ghirelli, Gli schermi del razzismo, in “Forum dell’Intercultura”, Caritas di Roma, 1995

(3) Massimo Ghirelli, Cinema e razzismo, in Agenda Nonsolonero, Archivio dell’Immigrazione, Roma 1996

(4)Gian Piero Brunetta, Emigranti nel cinema italiano, in Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma 2001

(5) Sonia Cincinelli, I migranti nel cinema Italiano, Edizioni Kappa, Roma 2009

(6) Massimo Ghirelli, One race: cinema e razzismo, Stampa Alternativa, Roma 1997

(7) Massimo Ghirelli, Straniero, dove sei? Il Diario settimanale, Milano 1999

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   Indietro