Foto di Riccardo Lanfranchi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Identità negate

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A metà strada

 

 

POLITICA INTERNAZIONALE E DELLE MIGRAZIONI

Corso di Laurea magistrale in Storia e società

 

Analisi identità migrante / spot e altri media

 

Gruppo 3:

Giulia Oddi   giulia.oddi@yahoo.it

Flavia Di Giandomenico 

G. Perrotta

Danilo Gagliardi 

 

 

PERSONE SENZA IDENTITA'

Che siano alti, o bassi. Dell’Africa centrale o di quella mediterranea. Asiatici, indiani, pakistani o arabi. Laureati o lavoratori assidui. Che abbiano un nome, un

cognome, un’età e una casa, dove fino a quel momento siano vissuti.

Tutte queste informazioni vengono sorvolate, tralasciate, dimenticate: ed ecco che ai nostri occhi ognuno diventa uguale all’altro, una persona senza un’identità,

un vu’ cumprà o un vù lavà. Un “uno, nessuno e centomila” che noi consideriamo della “stessa pasta”; che la televisione, le immagini e le nostre tradizioni ci

hanno insegnato a non distinguere, ma che dovremmo imparare a conoscere nelle loro tradizioni e apprezzarne le SINGOLE capacità e risorse.  (Giulia Oddi)


L'IDENTITA' MIGRANTE

I migranti condividono tra loro alcuni caratteri insiti nella scelta di emigrare dal loro paese di origine: la perdita della casa, la separazione dagli affetti familiari,

un lungo quanto traumatico viaggio e un arrivo in Italia contrassegnato dalla diffidenza e dal pregiudizio.
Ma in cosa consiste realmente questo viaggio? Partiamo dalle considerazioni fatte da un immigrato africano, Ymer Damgawi, cominciando con il sottolineare come

le tratte seguite per giungere alla tanto agognata meta, cioè uno Stato democratico, libero e possibilmente ricco, non sono liberamente scelte, ma sono imposte: e

le umiliazioni che si subiscono lungo il tragitto sono ancor più dolorose del semplice abbandono della propria famiglia. Durante il viaggio si è vittime di violenze

fisiche e psicologiche, si è costretti a pagare cifre alte e pagate più volte, dato che non sono rari i casi in cui si viene arrestati e rispediti al punto di partenza

(come nei check point dei videogiochi, peccato che ciò avvenga nella vita reale delle persone). Ma allora cosa spinge i migranti a persistere nella loro odissea?

La vergogna sociale di tornare a casa senza aver raggiunto la meta e senza aver conseguito quel successo economico-sociale per cui si era deciso di partire,

è una motivazione più che soddisfacente per farsi forza e continuare il viaggio, anche se disumano.


Prima di spiegare la «doppia assenza» che caratterizza l'emigrato-immigrato, intrappolato tra le illusioni di un futuro di prosperità e un presente che spesso lo

priva della dignità umana, occorre specificare le regole che ogni migrante deve seguire per evitare un distacco traumatico dalla propria famiglia, terra e cultura:
• Mai mettersi in viaggio con moglie, fratelli, genitori o qualunque persona a cui si è fortemente legati sentimentalmente.
• Far sapere solo a pochi intimi che si vuole partire.
• Per non rendere più dura la partenza occorre evitare di salutare le persone care, soprattutto i padri vengono spesso estromessi dalle notizie riguardanti il

   viaggio dei figli.
• Essere motivati, avere pazienza e autocontrollo durante un viaggio che mette a dura prova i nervi di ogni essere umano.


Prima di respingere i migranti così a cuor leggero, occorre sapere ciò a cui loro hanno rinunciato e domandarsi se anche noi avremmo avuto il coraggio di lasciare genitori, moglie o fidanzata, fratelli e amici cari, persino senza salutarli prima di un viaggio che sappiamo potrebbe essere di non ritorno. Loro si privano di tutto

questo e in cambio cosa ricevono?
La risposta a tale domanda è la condizione in cui si trova l'immigrato nel paese che lo ospita; si usa il termine «ospite» non a caso, poichè è proprio questa la considerazione che gli ospitanti riservano loro, ospiti per un tempo indefinito, forse per tutta la vita.

 

MURI E CONFINI

Costituisce un muro tutto quello che non fa passare le persone; possono essere «muri geografici» (ad esempio montagne, mari e altre separazioni dovute alla natura), ma anche - e soprattutto nel caso degli immigrati – si può parlare di «muri formali», ovvero pezzi di carta che non permettono all'individuo di spostarsi liberamente nel mondo: basti pensare al passaporto, alla carta d'identità o al permesso di soggiorno. Questi documenti, in cui sono riportati nome e foto della persona, racchiudono tutta l'immagine della persona; ma ci si può fermare solo all'apparenza di ciò che è riportato su quei fogli? Risulta abbastanza riduttivo descrivere l'identità della persona con la sola nazionalità di provenienza, la statura, o quei pochi altri dettagli lì riportati.
Infatti, proprio in base a tali limitazioni nell'analisi dei singoli soggetti, l'immigrato risulterà sempre essere un extracomunitario o comunque uno straniero, senza approfondire le singole peculiarità individuali; dunque se nel paese d'origine eri studente, professore, lavoratore qualificato, artista, disoccupato, ecc., questo non interessa al paese che ti accoglie: perché l'unica immagine che vedrà sarà quella del pezzo di carta e sulla base di questi dati dati l'unica differenziazione possibile è comunitario o extracomunitario, cittadino dello Stato di arrivo o straniero. Tra l’altro ogni emigrante ha una propria motivazione per decidere di andarsene dal proprio paese, ma queste ragioni non risulteranno mai in questi documenti e le prove che possono fornire oralmente gli immigrati non vengono accettate, anche se nello Stato d'origine si era la persona più credibile del mondo.

Il confine segna la differenza tra il proprio posto e quello di altri (come una siepe separa il nostro giardino da quello del vicino); nel caso del migrante questa linea di demarcazione, non necessariamente fisica, sembra (dalle immagini che ci trasmettono i media e che abbiamo noi) non venga superata mai. Infatti l'immigrato viene visto sempre come colui che è perennemente con una valigia in mano, che vive nelle stazioni e nei porti, che non raggiunge mai una destinazione stabile. Nelle immagini diffuse dai media raramente li vediamo nel loro reale percorso: ovvero quello di persone che una volta superato il drammatico viaggio della speranza, diventano lavoratori, studenti, imprenditori; cittadini che pagano le tasse - permettendo a noi autoctoni di godere dei servizi offerti dallo Stato, da alcuni dei quali a volte sono esclusi proprio gli immigrati, che pure contribuiscono a rendere più prospero quello che consideriamo gelosamente il "nostro paese".
Occorre andare oltre il significato del confine come linea di separazione, poichè come sostiene il sociologo dell'università Ca' Foscari di Venezia, Adel Jabbar, «se il confine statuale è rigido, quello culturale è fluido: gruppi separati da confini statuali possono avere consuetudini culturali simili , mentre altri che vivono nello stesso Stato possono avere tra di loro più differenze che similitudini» (1) : quindi perché basarsi solo sui confini politicamente e ideologicamente dati? Va sempre ricordato che la nostra cultura è una risultante delle influenze di popoli che tra loro si consideravano stranieri (ad esempio greci, romani e arabi, nell'antichità).
L'altra contraddizione importante è: in un mondo economicamente liberista e globalizzato, perché il confine permette di far passare gli oggetti del nostro uso quotidiano da un paese all'altro, ma blocca il flusso delle persone? Ci piace il kebab, ma non vorremmo a casa nostra coloro che lo sanno cucinare; i nostri abiti sono fatti con le migliori stoffe provenienti dall'Asia, ma temiamo l'arrivo in massa di coloro che tali materiali li producono; doniamo i soldi a Save the children per curare il bambino che ci fa tanta tenerezza, ma una volta che diventa adulto e vorrebbe arrivare nel nostro paese lo respingiamo senza scrupoli.
È giunto il momento di rendersi conto che il confine non è fisico, ma è nella nostra mentalità, dentro di noi.

(1) http://www.infomedi.it/adel_jabbar_multiculturalismo.htm

 

LE RADICI E LO SPECCHIO


L’interrogativo riguardo l’identità migrante si rinnova ciclicamente tanto quanto il fenomeno che lo genera. Parallelamente all’evoluzione del fenomeno in sé, tante sono state e sono ancora oggi le questioni sollevate dall’incontro/scontro tra culture, costumi, lingue e ‘condizioni’ umane e materiali quasi sempre distanti. Osservando il fenomeno dal punto di vista di chi, in questo momento storico, si trova al crocevia dell’accoglienza (come l’Europa) si possono notare due diverse tendenze: da una parte, si comprende la necessità di un’apertura culturale e umana (oltre che giuridica e legislativa) rivolta allo straniero, dall’altra parte quotidianamente si viene messi alla prova dall’immagine negativa del migrante che ci viene mostrata, ma non dimostrata, da una politica ideologicamente lontana dal concetto di accoglienza, dai media che troppo spesso diffondono notizie in maniera poco accurata e poco ‘limpida’, e da una dimensione culturale che in troppi oggi millantano di avere e che in realtà è una semplice quanto dannosa facciata.
Queste premesse delineano una contrapposizione tra coloro che si considerano ‘compaesani’ e coloro che vengono considerati ‘stranieri’. Probabilmente, la matrice di questa distanza è la prospettiva eccessivamente imbevuta di eurocentrismo e occidentalismo che influenza la percezione del fenomeno e gli strumenti che ci vengono offerti per informarci sull’argomento. Spesso si costruisce, nella mente del singolo e nella cultura collettiva, l’idea degli stranieri come di ‘gente selvatica’, con una cultura certamente inferiore alla nostra, con potenzialità sempre e solo considerate in funzione dell’arricchimento del cosiddetto mondo civilizzato. Quanto questa visione dell’‘altro’ sia distorta e anacronistica non è difficile da notare e tuttavia gli occhi del mondo occidentale sembrano troppo spesso restii a prendere coscienza di quanto sottile sia la barriera che separa ‘noi’ da ‘loro’; inoltre, il dilagante processo di globalizzazione e l’accelerazione vertiginosa dei movimenti migratori, avvenuti in pochi decenni su scala mondiale, uniti a politiche migratorie poco efficaci o solo parzialmente utili per un reale processo d’integrazione, hanno contribuito ad irrobustire questa barriera.
Nel corso del tempo, il muro ha affondato le sue radici in un terreno in cui ignoranza, frustrazione e paura proliferano, quasi senza lasciare spazio alla volontà e, soprattutto, alla necessità di conoscenza. L’individuo occidentale continua a guardare con diffidenza e sospetto lo straniero, inquadrandone l’identità in maniera piuttosto sommaria. Sono i pregiudizi ad impedire una visione ‘reale’ dello straniero e della sua particolarità individuale: si ragiona come se queste masse di migranti fossero un’entità distinta dai singoli individui che le compongono. Nell’immaginario del ‘cittadino’, il migrante non ha identità diversa da questa. Le singole storie di uomini, donne e bambini assumono un unico volto omogeneo e coincidente, un volto che, agli occhi di chi lo osserva da un nuovo punto di vista, non porta i segni di ogni vita che l’abbandono della terra d’origine ha lasciato incompiuta. Anche dal punto di vista terminologico, per esempio, non c’è grande consapevolezza: le condizioni di migrante, immigrato, rifugiato, extracomunitario, si equivalgono e ciò denota una quasi totale mancanza di conoscenza giuridica del fenomeno. A dimostrazione di ciò sta il fatto che, procedendo poi per semplificazioni ancora più ‘estreme’, per molti l’immagine dello straniero è assimilabile a quella dell’extracomunitario: questo termine, giuridicamente dotato di un significato molto preciso, è stato strumentalizzato con uno scopo negativo e fuorviante, tendente a denotare non solo una condizione di irregolarità ma anche quella di usurpatore di una serie di diritti spettanti solo ed esclusivamente ai cittadini ‘veri e propri’. Anche queste imprecisioni si configurano, in realtà, come stereotipi linguistici piuttosto diffusi e difficili da ‘estirpare’ dal nostro linguaggio quotidiano. Essi influenzano e allo stesso tempo sono influenzati dal modo semplicistico e paradossale con cui si guarda allo straniero: perciò ad esempio, tutti gli arabi o i mediorientali sono terroristi o ‘talebani’, tutti i venditori ambulanti sono ‘marocchini’, tutti i romeni sono ‘criminali’, e via discorrendo. Di esempi simili se ne potrebbero fare un’infinità (si pensi all’equazione italiano ‘uguale’ mafioso!) e questo sottolinea quanto lo sguardo che viene rivolto allo straniero sia privo di profondità, condizionato da pregiudizi dei quali non ci si interessa di verificare la fondatezza e l’origine, e direzionato da una prospettiva quasi ‘straniata’: l’idea di diversità è talmente forte che impedisce di immaginare il migrante come un individuo con una storia, una famiglia, con delle qualifiche che lo rendono magari una persona di cultura, con delle passioni e dei bisogni non solo materiali ma soprattutto umani. Raramente emerge l’abitudine di varcare la ‘soglia dello specchio’ o l’intenzione sincera di colmare il vuoto creato dal pregiudizio per ricostruire le storie di queste persone, per scoprire che lo ‘straniero’ potrebbe somigliare ad ognuno di noi.

Questa possibilità non viene contemplata e ancora meno si è sfiorati dall’idea che noi e la nostra civiltà potremmo essere oggetto di uno sguardo altrettanto ‘straniato’ e disorientato. Bisognerebbe domandarsi se e quanto realmente si crede nel pregiudizio che così tanto pesa sulla percezione dei migranti, soprattutto alla luce di alcune certezze dal punto di vista storico. I popoli europei hanno costruito la propria storia e la propria potenza su imponenti imprese di conquista e colonizzazione (e cos’erano i coloni se non migranti?) e in tempi recenti hanno conosciuto, in tutta la sua durezza, la necessità di abbandonare la propria storia e la propria patria per cercare una vita migliore (si pensi alle testimonianze delle migrazioni otto-novecentesche). Questo ciclico ripetersi del processo migratorio, che investe senza fare discriminazioni di sorta, e tutta la serie di conseguenze umane e materiali che ne derivano sono qualcosa di cui la civiltà occidentale ha consapevolezza storica ma verso cui dovrebbe sviluppare un maggiore senso critico. Solo mettendo in discussione la veridicità del ‘perfetto’ modello di civiltà occidentale si può abbattere la cortina di pregiudizi ed indolenza che avvolge tanto la percezione dell’altro quanto la percezione di noi stessi e delle nostre azioni all’interno della società. Solo comprendendo quanto facilmente i valori ed i principi del mondo occidentale vengono violati (sebbene le società occidentali ne facciano un vanto culturale e storico) e quanto paradossale sia la convinzione di avere il diritto di ritenersi superiori allo straniero, chiunque esso sia, si può realmente prendere coscienza di quella parte dello specchio cui ostinatamente si evita di paragonarsi.
Ma di fronte a questa ostinazione, spesso sbandierata con violenza in nome della difesa dell’identità del popolo da manifestazioni culturali non riconosciute come tradizionali, sorgono spontanee alcune domande: quanta poca certezza della nostra identità abbiamo se ci sentiamo minacciati da qualcuno che chiede di poter essere libero di essere sé stesso, fra l’altro per mezzo di diritti che la civiltà occidentale dà per scontati? In che modo questa richiesta lede la libertà dei popoli che offrono accoglienza? E soprattutto, di fronte alla fierezza con cui rifiutiamo di essere privati dei nostri diritti e della nostra identità in un paese straniero, perché crediamo di poter imporre questo dazio a chi ci chiede accoglienza?

Dare una risposta unitaria e oggettiva ad una simile sfilza di domande è impossibile. Naturalmente, nell’ambito della soggettività di ognuno di noi si può riflettere, talvolta darsi una risposta e decidere di affrontare lo specchio. A fronte di tutte le difficoltà ‘oggettive’ e concrete che costellano il percorso dell’integrazione, la soluzione resta comunque una sola: imparare a riconoscere che i più profondi aspetti dell’umanità accomunano ‘straniero’ e C
Ed è, infine, proprio il concetto di integrazione a dover essere ‘tradotto’ in maniera più fedele possibile poiché, se si continuerà solo a pretendere l’integrazione dallo straniero cui si offre accoglienza senza mai aprirsi all’altro con rispetto e consapevolezza, essa non sarà mai realizzata pienamente.

Come prova di quanto soggettiva possa essere la percezione dell’alterità anche agli occhi di chi viene considerato straniero da noi, proponiamo un video realizzato recentemente dai The Jackal. Un video che, con la sua impronta semiseria e assolutamente realistica porta alla luce la disarmante insensatezza del pregiudizio e della discriminazione. ( https://www.youtube.com/watch?v=xHpeSndZyV0)

Gatta G., Come in uno specchio. Il gioco delle identità a Lampedusa in Colonia e postcolonia come spazi diasporici, a cura di U. Chelati Dirar, S. Palma, A. Triulzi

e A. Volterra, Carocci, Roma, 2011.

 

LA "DOPPIA ASSENZA"

Il concetto di "doppia assenza" è inerente alla condizione del migrante mentre è in viaggio, perché è in questo momento che egli si trova in una sorta di trappola

difficile da evitare. E «La doppia assenza» è il titolo di un libro scritto da Abdelmalek Sayad e pubblicato nel 2002. L'autore parla della storia dei migranti che dall'Algeria emigravano verso la Francia, ex madrepatria e nazione colonizzatrice. Nell'analisi che stiamo approfondendo non si analizzano i casi specifici, tuttavia

molti elementi riscontrati nel testo citato, si riscontrano sempre quando si verifica il fenomeno migratorio.

Perché l'immigrato è doppiamente assente? Egli è alienato rispetto a due società: quella d'origine, da cui se n'è andato e in cui presumibilmente non tornerà più,

e quella d'arrivo, in cui l'immigrato difficilmente si riuscirà ad integrare, poichè verrà considerato sempre straniero e anche se diventasse cittadino del paese che

lo accoglie, comunque i suoi valori culturali d'origine sarebbero in buona parte perduti.

Ogni emigrazione è una rottura con un territorio, con una popolazione, un ordine sociale, economico, politico, culturale e morale. Inoltre l'emigrazione "disaccultura", perché fa recepire una cultura che non è la propria, ma è straniera; l'emigrazione "snatura" perché naturalizza conformemente ad una natura straniera; l'emigrazione "spersonalizza", dato che la persona che si era in patria (dal punto di vista sociale, culturale, ecc.) non conta più e nello Stato di immigrazione si è tutti semplicemente "immigrati".
L'emigrante si trova sempre a metà strada tra il desiderio e l'aspirazione di una vita migliore altrove e la nostalgia per il proprio paese, di cui sentirà la mancanza

sociale e culturale. «L'immigrato è assente moralmente laddove è presente fisicamente» scrive Sayad; e in fondo è in questa frase che si riassume il concetto di cui stiamo trattando. Quant'è bella la ricca Europa quando si ha intenzione di partire e quanto è triste la vita nei paesi occidentali una volta raggiunti con tanta fatica;

questo è il pensiero di coloro che partono e riescono a giungere alla loro agognata meta.


Sempre a proposito dell'identità dell'emigrato/immigrato, è da ricordare che anche gli italiani che vivevano e lavoravano all'estero hanno vissuto le difficoltà e i

disagi di cui si è discusso nelle righe precedenti; a tal proposito è particolarmente significativo un film di Nino Manfredi, intitolato «Pane e cioccolata», che descrive

la sofferenza dell'italiano che non trova varchi per integrarsi nella società di immigrazione (in questo caso la Svizzera). L'ultima scena del film - in cui Manfredi

scende dal treno che lo sta riportando in Italia e riprende la strada della Svizzera - è sintomatica di come tornare in patria senza aver trovato fortuna, sia ancor più problematico del viaggio d'andata, almeno dal punto di vista morale.

 

BIBLIOGRAFIA SUL TEMA

Il Gruppo 3 ha individuato un gruppo di testi inerenti l'integrazione sociale e scolastica e l'identità migrante.

Bibliografia inerente l'integrazione sociale e scolastica:

• Le seconde generazioni e le politiche per la scuola osservazioni e proposte, CNEL, Roma 2008
• La migrazione educativa: extracomunitari e formazione, R. Massa, P. Mottana, A. Rezzara, M. G. Riva, I. Salomone, Milano, Unicopli, 1994
• L’integrazione sociale e scolastica degli immigrati in Europa e in Italia, Serena Sani, Lecce, Pensa multimedia, 2012
• Gli immigrati: integrazione scolastica, attese rispetto al lavoro: le valutazioni del Cnel, CNEL, Roma 2008
• Le seconde generazioni, Agenda Nonsolonero, 2008
• Roma-Italia dimensione transcontinentale dell’immigrazione. Gruppi nazionali tra percorsi di inserimento e legami con i paesi d’origine, Idos, 2015
• il valore della diversità nell’Italia multietnica, Ciancio B., Angeli, 2014
• Seconda generazione: un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Studi politici

Bibliografia inerente l'identità migrante:

• Sviluppare la competenza interculturale: il valore della diversità nell'Italia multietnica. Un modello operativo, Ciancio B. , Franco Angeli, 2014
• L'identità ferita. Genealogie di vecchie e nuove intolleranze, Campioni G., ETS, Pisa, 1992
• Identità e cultura, Di Cristofaro Longo G., Ediz. Studium, Roma, 1993
• La stanza degli specchi, Lombardi Satriani L., Meltemi, Roma, 1995
• La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Abdelmalek Sayad, Cortina, Milano, 2002

 

   

        Dipartimento di 

         studi umanistici

 

  

            Cooperazione

Università Roma Tre

  

 

 

 

 

 

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