POLITICA INTERNAZIONALE E DELLE MIGRAZIONI

Corso di Laurea magistrale in Storia e società

 

Analisi della politica italiana ed europea

 

Gruppo 5:

Guido Palmieri   guidopalmieri@live.it

Enrico Guglini

Niccolò Procopio
Erica Iannaccone

 

ANALISI DELLA POLITICA ITALIANA SULL'IMMIGRAZIONE

 

La legge Martelli


Il primo intervento, la legge 39/1990 cosiddetta legge Martelli, si presenta formalmente come provvedimento in materia di rifugiati e profughi, argomento

principale del testo di legge, che in effetti amplia e definisce lo status di rifugiato e il diritto di asilo politico a esso collegato. La seconda parte del testo si pone

invece come un tentativo, per quanto tardivo, di regolamentare l’aumento esponenziale dei flussi migratori degli anni ’80, mediante programmazione statale dei

flussi di ingresso degli stranieri non comunitari in base alle necessità produttive e occupazionali del Paese. Si delinea fin da subito quella che diventerà una costante della legislazione: la gestione dell’immigrazione da un punto di vista economico. Per quanto riguarda la lotta all’immigrazione clandestina, la legge Martelli

introduce per la prima volta

pene detentive e pecuniarie, aggravate dalla circostanza del concorso per delinquere. Pene lievi, se si considerano quelle attualmente in vigore: la reclusione fino

a due anni o una multa fino a due milioni delle vecchie lire, aumentate a sei anni più una multa da dieci a cinquanta milioni in caso di concorso o lucro.
La legge Martelli fissa inoltre i parametri iniziali del meccanismo generalizzato dell’espulsione quale mezzo di controllo degli immigrati socialmente pericolosi o clandestini, mediante provvedimento del prefetto disposto con decreto motivato. Esso si sostanzia nella intimazione ad abbandonare il territorio dello Stato entro il termine di quindici giorni, con l’accompagnamento alla frontiera solo in caso di violazione. La permanenza dello straniero sul territorio italiano viene subordinata

al rilascio di un permesso di soggiorno da parte della questura o del commissariato di Pubblica sicurezza territorialmente competente che indica il motivo della

permanenza, dal quale dipende la durata stessa del permesso che va da un minimo di tre mesi a un massimo di due anni. In materia di lavoro, la legge Martelli

sembra più tesa a sanare una situazione pregressa che non a tracciare un quadro organico per il futuro, sostanziandosi in una moratoria atta a sanare le irregolarità

che vedono i lavoratori stranieri più inclini, per necessità, a lavorare ‘in nero’ e a salari più bassi. Nonostante il poco respiro della normativa nel suo complesso,

la legge Martelli ha comunque impostato la lenta e iniziale stabilizzazione dei migranti, attraverso i primi interventi volti all’integrazione e alla partecipazione

alla vita pubblica.


La legge Turco - Napolitano


Il rapido evolversi del fenomeno, conseguenza del mutamento degli assetti internazionali, ha tuttavia evidenziato nel giro di pochi anni l’inadeguatezza del testo, inducendo il Parlamento all’emanazione di una normativa più esaustiva, la Legge 40/1998 cosiddetta Turco-Napolitano, confluita successivamente nel Testo unico

delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero (dl 286/1998). È questo l’assetto su cui l’intervento legislativo

più recente, la legge 189/2002 cosiddetta legge Bossi-Fini, è andato a incidere, in senso vessatorio e punitivo. Nonostante la Bossi-Fini costituisca formalmente

solo una modifica al Testo unico, che riprendeva l’impianto della Turco-Napolitano, essa vi introduce significative modifiche, da un lato rendendo più difficoltoso l’ingresso e il soggiorno regolare dello straniero e agevolandone l’allontanamento, dall’altro riformando in senso restrittivo la disciplina dell’asilo. Il meccanismo fondamentale di controllo dell’immigrazione rimane la politica dei flussi, quantificata annualmente dal governo mediante un decreto che fissa il numero di stranieri

che possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Chiaro l’intento, peraltro ereditato dalla normativa precedente, di controllare il fenomeno attraverso la limitazione numerica degli ingressi imposta dall’autorità.

 

La legge Bossi - Fini


La legge Bossi-Fini (2002) fa un passo ulteriore, prevedendo restrizioni all’ingresso in Italia di cittadini appartenenti a Paesi che non collaborano adeguatamente col governo italiano nel contrastare l’immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini soggetti a provvedimenti di rimpatrio, attribuendo nel contempo

quote preferenziali agli Stati che abbiano stipulato accordi bilaterali volti alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione. Si produce

in questo modo una disuguaglianza sostanziale tra gli stranieri basata esclusivamente sulla loro cittadinanza. È infatti possibile che al lavoratore in possesso di tutti i requisiti venga negato il permesso di soggiornare in Italia per il solo fatto di appartenere a uno Stato che, a parere insindacabile del governo italiano, non abbia

posto in essere una politica sufficientemente ‘collaborativa’, con il conseguente aumento di immigrazione clandestina da questi Paesi, impossibilitati a ‘esportare’ legalmente la propria forza lavoro. Per quanto riguarda le procedure di ingresso, in linea con la precedente legislazione, la Bossi-Fini impone allo straniero

l’ottenimento di un visto rilasciato dall’ambasciata o dal consolato del Paese di origine. Precisa però che l’eventuale diniego non debba essere motivato. Questa eccezione alla regola generale per cui i provvedimenti della pubblica amministrazione devono essere motivati per permettere al cittadino di proporre ricorso, rende

di fatto inappellabile il provvedimento di rifiuto.
La Bossi-Fini aumenta anche il numero delle cause ostative al rilascio del visto, introducendo, oltre alla mancanza dei requisiti e i motivi di ordine pubblico, il diniego

a seguito di condanna penale, anche patteggiata. L’estensione a questo tipo di condanna, che deriva da un accordo tra le parti e non da un accertamento di responsabilità, è un chiaro segno del carattere repressivo della legge che introduce l’obbligo per lo straniero che richiede il rilascio, così come il rinnovo del permesso

di soggiorno, a essere sottoposto a rilievi fotodattiloscopici. Procedura solitamente riservata ai delinquenti còlti in flagranza di reato e non prevista né per i cittadini italiani né per i cittadini stranieri appartenenti ai Paesi dell’Unione europea.

Anche per quanto riguarda le procedure di ingresso dei lavoratori subordinati non stagionali, ossia della maggior parte dei lavoratori stranieri, la Bossi-Fini

conferma l’impostazione delle leggi precedenti. Il meccanismo è quello della chiamata nominativa. Il rilascio del permesso di soggiorno è subordinato all’ottenimento

di un contratto di soggiorno, con il quale il datore di lavoro italiano si impegna a garantire al lavoratore straniero un alloggio e il pagamento delle spese di viaggio

per il rientro nel Paese di provenienza. Si tratta chiaramente di una mistificazione: il legislatore presuppone che il datore di lavoro assuma il lavoratore straniero

senza neanche conoscerlo, dal momento che dovrebbe trovarsi nel Paese di origine, non avendo ancora ottenuto il permesso di soggiorno. La pratica dimostra che

nella maggior parte dei casi il datore di lavoro assume l’immigrato, magari clandestino o in possesso di un visto turistico, in modo informale, per poi formalizzare l’assunzione in un momento successivo attraverso la chiamata nominativa, facendo ‘apparire’ lo straniero in Italia al momento opportuno. È questo uno dei punti più claudicanti dell’intera struttura. Paradossalmente, la norma posta a contrastare l’immigrazione clandestina, alimenta di fatto il mercato della forza lavoro non tutelata

e a basso costo, dal momento che solo nella clandestinità un lavoratore straniero può procacciarsi un impiego e, di conseguenza, la legalità.

La Bossi-Fini, mediante modifica dell’art 23 T.U., ha peggiorato ulteriormente la situazione, abolendo il meccanismo più realistico per gestire l’ingresso dei lavoratori stranieri introdotto dalla Turco- Napolitano, che prevedeva la possibilità per il cittadino italiano o lo straniero regolarmente soggiornante, che intendessero farsi

garanti dell’ingresso di uno straniero per consentirgli l’inserimento del mercato del lavoro, di presentare apposita richiesta nominativa alla questura della provincia

di residenza. Il richiedente doveva dimostrare di poter assicurare allo straniero alloggio, sostentamento e assistenza sanitaria per tutta la durata del soggiorno; allo straniero era data possibilità, previa iscrizione alle liste di collocamento, di ottenere un permesso di soggiorno annuale a fini di inserimento nel mercato del lavoro.

Una logica senz’altro più aderente alle normali dinamiche dei flussi migratori rispetto a quella attualmente in vigore. La Bossi-Fini si dimostra ostile anche verso il processo di stabilizzazione dell’immigrato dilatando da cinque a sei anni i termini per la richiesta della carta di soggiorno, quella che consente la permanenza a tempo indeterminato.
Ma è in materia di lotta all’immigrazione clandestina che la Bossi-Fini da il meglio di sé. Seppure vengono aumentate le pene detentive e pecuniarie connesse al favoreggiamento dell’immigrazione non regolare, la principale novità è la riforma della procedura di espulsione. Per comprenderne l’impatto è necessario chiarire il quadro delineato dalla normativa precedente. La Turco-Napolitano prevedeva tre tipi di espulsioni, due per motivi giudiziari e una per ragioni amministrative,

risultata poi quella di maggior applicazione. L’espulsione amministrativa, disposta dal ministro dell’Interno o più comunemente dal prefetto per motivi di ordine

pubblico o di sicurezza dello Stato, consisteva in un decreto motivato contenete l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro un termine di quindici giorni. L’espulsione eseguita con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica era prevista solo nel caso che lo straniero già espulso si fosse indebitamente trattenuto nel territorio dello Stato oltre il termine fissato dall’intimazione, oppure vi fosse la concreta possibilità che volesse sottrarsi all’esecuzione del

provvedimento. Nel caso non fosse possibile l’immediato accompagnamento alla frontiera, per mancanza di un mezzo di trasporto adeguato o il compimento di

attività di accertamento sull’identità e la cittadinanza dello straniero, la legge prevedeva che l’immigrato fosse trattenuto presso uno dei Centri di permanenza temporanea e assistenza, istituiti proprio a tale scopo. La ratio della norma è chiara: gestire le procedure di rimpatrio in forma amministrativa, attribuendo carattere residuale all’esecuzione forzata del provvedimento.

In questo contesto l’utilizzo dei Centri di permanenza temporanea risultava teoricamente marginale rispetto alla gestione generale del fenomeno. La Bossi-Fini ha ribaltato questo scenario, invertendone le proporzioni. L’espulsione coatta diventa il meccanismo principale, rendendo residuale l’applicazione della sola intimazione.

Il nuovo assetto ha comportato un incremento nel ricorso ai Centri di permanenza temporanea, divenuti di fatto centri di detenzione, dai quali tutti i clandestini sono costretti a passare, indipendentemente dal fatto di essere o meno socialmente pericolosi. Il carattere repressivo della norma si evince anche dall’innalzamento del

limite temporale del divieto di rientro da cinque a dieci anni.

La Bossi-Fini, attenta anche alla prevenzione del fenomeno, dispone maggiori controlli transfrontalieri, con particolare attenzione alla vigilanza delle coste, ampliando oltre il limite delle acque territoriali l’ambito operativo delle navi in servizio di polizia. Questo aspetto in particolare sembra essere in contrasto con l’art. 13

della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, secondo il quale “ogni uomo è libero di lasciare il proprio Paese”. Lo straniero che si trova in acque internazionali, che non è ancora entrato in Italia, sta formalmente esercitando il suo diritto a emigrare; potrebbe ipoteticamente cambiare rotta e non entrare

neppure nel territorio dello Stato, e quindi nella sua giurisdizione, eppure è sottoposto ai controlli della polizia italiana, esercitati in un ambito territoriale

generalmente non riconosciuto dalle consuetudini del diritto internazionale.

Le politiche migratorie italiane

L’Italia, come ben sappiamo, è tra i paesi maggiormente esposti ai mutamenti dei flussi migratori: basti pensare, senza risalire troppo indietro negli anni, alle trasformazioni dell’ultimo secolo e mezzo. Dall’essere terra di emigrazione tra la fine dell’’800 ed il 1914, tra le due guerre mondiali e tra il secondo dopoguerra e gli anni ‘60/’70, l’Italia è divenuta meta di immigrazione, fino agli anni più recenti. Negli ultimi tempi, stiamo assistendo ad una nuova inversione di tendenza poichè la quota di coloro che lasciano l’Italia è tornata ad essere superiore rispetto alle persone che arrivano con l’intenzione di fermarsi stabilmente.


Focalizzando l’attenzione sugli ultimi venti anni, si nota come l’Italia sia stata percorsa da diverse correnti immigratorie che nel corso del tempo si sono modificate per composizione e numero. Ricordiamo in particolare i flussi provenienti dai balcani negli anni ’90 e quelli caratterizzati dal passaggio nei i paesi del MENA. Gliultimi anni hanno visto l’inizio del coinvolgimento europeo nella gestione del fenomeno migratorio. Tale processo, destinato ad intensificarsi, è stato in parte conseguenza delle richieste sempre più pressanti dei paesi situati alle frontiere esterne dell’UE; ma in misura maggiore, è stato dovuto alla presa di coscienza degli stati più influenti, Germania in testa, che hanno compreso che la risposta ai mutamenti dei flussi migratori per essere efficace necessita di uno sforzo congiunto e non può essere scaricata su quei paesi che per primi, per posizione geografica, sono costretti a rispondere a tutte le questioni che tali fenomeni sollevano.
Il cambiamento dei centri decisionali ha avuto delle ovvie conseguenze sulla gestione degli arrivi dei migranti, ha segnato una notevole evoluzione nel processo di europeizzazione delle politiche migratorie e più in generale sta forzando i governi dei paesi membri alla ricerca di soluzioni congiunte. Si può ipotizzare che la questione migratoria rappresenti un’occasione di maggiore coinvolgimento e coesione tra le normative e le politiche europee con i singoli stati nazionali; mentre resta da valutare quanto queste linee politiche siano coerenti con gli alti valori fondanti dell’Unione Europea.

Il panorama politico italiano, nel corso degli ultimi sedici anni, è stato caratterizzato da posizioni altalenanti, quasi schizofreniche, in merito alle risposte elaborate verso i flussi migratori. All’evoluzione del quadro normativo si sono puntualmente accompagnate, a seconda delle circostanze, diverse sanatorie volte a regolarizzare la posizione degli stranieri illegalmente presenti sul territorio italiano. Tali sanatorie rappresentano, per certi aspetti, la presa di coscienza dell’inadeguatezza dell’impianto normativo che più che rispondere alle problematicità, è volto al respingimento degli stranieri e conseguentemente, sembra determinare una sorta di “fabbrica dell’irregolarità”, risolta appunto per mezzo di sanatoria. Indirettamente, quest’ultimo strumento sembra incoraggiare i migranti respinti e coloro a cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno nel tentativo di rimanere in Italia in condizione di illegalità, nell’attesa del successivo provvedimento sanatorio volto a regolarizzare la loro posizione.
Dunque, il dato fondamentale che emerge dall’analisi dell’evoluzione della normativa italiana in merito all’immigrazione, è la mancanza di un obbiettivo di lungo periodo e la conseguente assenza di politiche coerenti.

Altra questione collegata a tale studio, è l’assenza di una legge organica sul diritto di asilo, nonostante che questo sia espressamente riconosciuto nella Costituzione italiana dall’articolo 10, comma 3. Su questo aspetto, va registrato il grande lavoro di numerose organizzazioni del terzo settore che continuano a denunciare il ritardo normativo in materia d’asilo, rispetto alla maggioranza dei paesi europei.
Nell’ultimo periodo, l’Italia ha recepito diverse direttive europee tese a creare una matrice comune all’interno dell’area Shengen che hanno definito una procedura condivisa di riconoscimento di protezione internazionale per i migranti. Oltre al riconoscimento dello status di Rifugiato Politico, conseguente all’adesione alla Convenzione di Ginvera del 1951, con il D.L. n°251/2007 è stata recepita la direttiva UE volta ad istituire una seconda forma di protezione, denominata Protezione Sussidiaria. Va inoltre evidenziato che la normativa italiana prevede la prossibilità di riconoscere una forma di Protezione Umanitaria, nel caso in cui la condizione del richiedente non sia tale da determinare il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Tale strumento, antecedente all’istituzione della protezione sussidiaria, è attualmente poco utilizzato. Infine per rispondere a flussi particolarmente consistenti e ravvicinati che, secondo il legislatore, porterebbero il sistema di asilo al collasso, è stata istituita un’eccezionale forma di Protezione Temporanea.

Sul tema dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia, è necessario porre l’attezione sul D.L. n°142/2015. Questo decreto, nel quadro del processo di graduale omogeneizzazione dell’accoglienza dei migranti, recepisce le direttive europee n°32 e 33 del 2013 e rappresenta l’ultima risposta del governo italiano alla situazione. Va sottolineato che il concetto fondamentale alla base del processo italiano ed europeo di accoglienza, ha come oggetto i richiedenti asilo e non i migranti in generale; sulla possibilità e sul riconoscimento o meno del diritto di chiedere protezione internazionale, si basa la risposta dei paesi membri ai flussi dei migranti. Tale risposta, come si evincerà in seguito, non sembra apparire sempre solidale e costruttiva.
Tornando al decreto, il testo rappresenta il tentativo di disciplinare le procedure comuni per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato e si pone l’obiettivo di riformare il troppo caotico sistema dell’accoglienza italiana.
Secondo l’ASGI, la manovra deficita della volontà di trasformare concretamente tale sistema. Essa presenta degli elementi positivi, ma non risponde sufficientemente a numerose criticità; una su tutte, il mancato superamento del principio di volontarietà alla base dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale nei singoli comuni. Perciò, nonostante la presenza positiva di diversi aggiustamenti, l’accoglienza continuerà ad essere condizionata dall’orientamento politico delle singole amministrazioni comunali e per questo non sarà possibile provocare un’evoluzione sostanziale della situazione.

 

 

L'OPERAZIONE MARE NOSTRUM

L'operazione militare e umanitaria nel Mar Mediterraneo meridionale denominata Mare Nostrum è iniziata il 18 ottobre 2013 per fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria in corso nello Stretto di Sicilia, dovuto all'eccezionale afflusso di migranti (si veda anche una scheda con i dati statistici degli sbarchi negli ultimi anni). L'operazione è terminata il 31 ottobre 2014 in concomitanza con la partenza della nuova operazione denominata Triton

L'Operazione Mare Nostrum consisteva nel potenziamento del dispositivo di controllo dei flussi migratori già attivo nell'ambito della missione Constant Vigilance, che la Marina Militare ha svolto dal 2004 con una nave che incrociava permanentemente nello Stretto di Sicilia e con aeromobili da pattugliamento marittimo.

L'Operazione aveva dunque una duplice missione:

•garantire la salvaguardia della vita in mare;
•assicurare alla giustizia tutti coloro i quali lucrano sul traffico illegale di migranti.


Il dispositivo vedeva impiegato il personale e i mezzi navali ed aerei della Marina Militare, dell'Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Capitaneria di Porto, personale del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana nonché del Ministero dell'Interno – Polizia di Stato imbarcato sulle unità della M.M. e di tutti i Corpi dello Stato che, a vario titolo, concorrono al controllo dei flussi migratori via mare.

L'Operazione Mare Nostrum operava congiuntamente alle attività previste da Frontex.

   

        Dipartimento di 

         studi umanistici

 

  

            Cooperazione

Università Roma Tre

  

 

 

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