L'uomo Del Monte

 

 

 

 

 

 

 

 

Estathè

 

 

 

 

 

 

 

 

Morositas

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Vorrei essere a righe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POLITICA INTERNAZIONALE E DELLE MIGRAZIONI

Corso di Laurea magistrale in Storia e società

ccc

Analisi di spot e altri media

 

Gruppo 3:

Giulia Oddi   giulia.oddi@yahoo.it

Flavia Di Giandomenico 

G. Perrotta

Danilo Gagliardi 

 

ANALISI DI SPOT PUBBLICITARI

 

L'UOMO DEL MONTE

“L’uomo Del Monte ha detto sì”: e naturalmente i contadini del paese - sarà l’Indonesia, il Borneo o la mitica Polinesia? - hanno arato, seminato, irrigato,

difeso le piante dal maltempo e dagli insetti: ma nella loro beata ignoranza non sanno, poverini, quando è l’ora di raccogliere. E corrono in corteo dall’uomo

Del Monte - quello con l’abito bianco, con il panama coloniale, con l’aria da Indiana Jones - per farsi dire di sì. Soltanto lui, recita la voce fuori campo,

“sa rubare l’anima alla frutta”. E’ solo lui, assiso su una specie di trono, a decidere; ed é solo la Del Monte, multinazionale italo-americana, a guadagnare.

Per gli indigeni, c’è la grande soddisfazione di averli fatti contenti: vedete come si rotolano felici nell’acqua, come corrono e saltano, come sorridono rassicuranti;

anche se chi consumerà - tre bei ragazzi europei in costume e pareo firmato - non sono certo loro; chi fatturerà, non sono sicuramente loro che hanno lavorato.

Il Sud del mondo, questa è l’immagine proposta, è un posto pieno di gente mite da sfruttare; brave persone, per carità, ma che senza di noi, non sanno nemmeno

quando maturano gli ananassi. Un posto pieno di belle cose da consumare, che non appartengono a chi ci vive, ma a chi ha i soldi per comprarle, e il know how

per commercializzarle. Nel ben ordinato mondo delle multinazionali, ognuno ha il suo ruolo, ed è felice di stare al suo posto.

 

I MESSICANI SI SVEGLIANO CON IL THE

Dal 1997 è andato in onda lo spot di una nota multinazionale italiana che produce oltre al thè freddo decine di prodotti dolciari. Analizzando con attenzione lo spot, suddiviso in 21 sequenze, sono emersi alcuni stereotipi diffusi nella nostra cultura. Il messicano pigro e svogliato che non alza la testa durante la sua “siesta”,

nemmeno per guardare chi gli sta facendo delle domande; emerge in questo modo maleducazione e mancanza di rispetto per chi sta parlando. Il mare cristallino

e trasparente rimanda ad un posto “esotico”, lontano, non importa quale, il messaggio che deve passare è lontano=esotico, a prescindere dal luogo reale. Ma scopriremo subito dove siamo: nella prima sequenza, entrano in scena due turisti che chiedono di poter fare un giro in barca a due messicani, rigorosamente rappresentati con il “sombrero” e inevitabilmente occupati in una perpetua “siesta”. Gli uomini pigri, impuniti, maleducati riescono a destarsi soltanto grazie al

suono della cannuccia che buca il vasetto del thè, ovviamente portato dai turisti. Il potere della bontà del thè è illimitato, e nessuno, nemmeno i messicani tanto

svogliati, riuscirà a resistere.

 

SPOT PONTI PEPERLIZIA


Africano:
Il breve spot, che sulle prime può anche far sorridere, è basato esclusivamente sulla figura di un uomo di colore che mangia soddisfatto il prodotto in questione. Ovviamente un africano non può indossare giacca e cravatta, o magari una tuta, quindi indossa una tunica tipicamente africana con tanto di braccialoni ai polsi.

Ma l’identità dell’uomo è espressa anche dalla sua voce, che è la classica “parlata” con cui l’italiano intende schernire l’africano, ovvero la “z” al posto della “s”,

la “b” al posto della “p” e soprattutto la “z” sempre dolce e mai aspra. In questo modo si ricalca l’immagine dello schiavo negro che lavorava le piantagioni di cotone

o che puliva le ville degli schiavisti. Viene fuori, insomma, l’immagine del nero sempre felice che esclama: “Zi, badrone!”. Quello stereotipo che è stato in voga fin

dai primi anni del 900 e che prende forma compiuta nel personaggio di Mami nel film “Via col vento”.

Cinese:
Una variante dello spot, che presenta lo stesso testo del precedente, vede come protagonista un abitante dell’estremo Oriente, probabilmente un cinese, anche se

non è probabile (a giudicare dallo spot) che l’opinione pubblica conoscesse o facesse caso alla differenza tra un giapponese, un vietnamita o un coreano. Non ha la

tunica africana ma indossa un abito che vuole ricordare (non fedelmente) l’impero cinese. Possiede baffi lunghi e sottili e una lunga treccia (in realtà vorrebbe essere

un codino) per cercare di rappresentare un membro della dinastia Ming. Anche stavolta il motivo di scherno è l’accento del protagonista che deve suscitare l’ilarità

dello spettatore giocando sull’impossibilità del cinese di pronunciare la consonante “r”. Quindi ecco che i peperoni diventano pepeloni. Si presume che il pubblico si divertisse ancora nel prendere in giro i diversi modi di parlare degli stranieri, come l'orientale mangiariso incapace di utilizzare la “r”.


SPOT TARTUFON E MOROSITAS


Non esprimono il razzismo crudele e cinico degli spot della Ponti, ma giocano sul colore dei rispettivi prodotti: il nero. In entrambi gli spot si propone l'identificazione

delle persone di colore con i prodotti. Il cameriere e la modella diventano, in questo modo, il Tartufon e la Morosita, entrambi neri (cui allude anche lo stesso nome

dei prodotti).

Sia la prima che la seconda pubblicità si concludono con un allusione sessuale: una donna fa il verso del morso al cameriere con l'accento afro-francese, come se volesse mordere lui; e un uomo si getta tra i seni della Morosita, che è diventata la bella modella di colore.



PEPSI


Negli Stati Uniti lo hanno definito “lo spot più razzista di sempre”. Ideato e girato dal rapper Tyler per la Mountain Dew, bibita prodotta dalla Pepsi. Nello spot, una donna deve riconoscere un presunto criminale in una classica scena da film in cui il testimone guarda attraverso un vetro oscurato. Il problema è che tutti i potenziali criminali, a parte la capra, sono afroamericani. Quindi emerge lo stereotipo del nero americano che vive nel ghetto, che fa parte di una gang, che per salutare dice

“Yo!” e che è sempre pronto ad usare la pistola. Quest’immagine è diffusissima in tutti gli Stati Uniti ed è uno dei motivi principali della diffidenza (per non chiamarla razzismo) dei ricchi bianchi nei confronti degli afroamericani. (http://video.repubblica.it/mondo/e-lo-spot-piu-razzista-di-sempre--la-pepsi-deve-chiedere-cusa/127203/125705)


SAGA FALABELLA


La catena di negozi peruviana ha presentato un catalogo dedicato alle principesse della Disney. Ma le protagoniste sono esclusivamente bambine bionde, dagli occhi azzurri e dalla carnagione chiara, che non rappresentano per nulla la maggioranza delle bambine del Perù. Queste immagini possono urtare la sensibilità e l’autostima delle bambine peruviane e non rappresentano la grande diversità del Perù. Ciudadanos contra el racismo, un comitato antirazzista peruviano, ha commentato lo spot così: “Bambine bionde, bambole bionde…sembra uno scherzo crudele, però questo è ciò che Saga Falabella diffonde. E le altre bambine peruviane? Per Saga

Falabella i loro visi non sono abbastanza belli per far parte delle loro pubblicità”.


TRENITALIA


Standard, premium, business ed executive: nello spot Trenitalia ad ogni classe sociale corrisponde un posto. Nell’executive siedono tre managers che stanno concludendo un grosso affare, nella premium persone più semplici: il ricordo va alle prime e terze classi del film “Titanic”, dalle quali provenivano i due innamorati. L’azienda dei trasporti di Stato,
nel 2015, preferisce ancora dividere i suoi clienti per classi sociali. Ma arriviamo al razzismo: si guardi da chi sono occupati i posti standard (la quarta classe, in Freccia rossa): da una sorridente famiglia di immigrati. Per l’azienda di Stato, quindi, gli immigrati non possono utilizzare le classi più lussuose. Ma il lato più geniale di questa divisione per classi è che (come è scritto anche sul sito) ai passeggeri standard non è permesso accedere alle altre tre classi, mentre coloro che occupano i vagoni premium, business o executive possono percorrere tranquillamente tutti i vagoni del treno. Gli standard, rappresentati dagli immigrati, sono simbolicamente segregati nei loro poveri vagoni.

 

UNIONE EUROPEA


“Più siamo, più forti siamo!”. Lo spot ha come protagonista una ragazza bianca, vestita come la sposa interpretata da Uma Thurman nel film "Kill Bill" di Quentin Tarantino. La suddetta ragazza viene circondata da tre loschi figuri: un uomo dell’estremo Oriente che pratica arti marziali e la minaccia con dei lunghi artigli; un altro dai tratti somatici indiani che indossa tunica e turbante e sguaina la scimitarra; e una altro ancora dai tratti africani che, per spaventarla, esegue una specie di capoeira brasiliana. I tre si addolciscono quando la ragazza si sdoppia e crea undici sue sosia, che rappresentano le stelle e quindi gli stati dell'Unione Europea.

Lo spot avrebbe potuto, anche solo vagamente, invitare all’armonia e alla solidarietà tra i popoli: ma l’Unione Europea preferisce rappresentare gli altri come una minaccia che l’Europa, tutta unita, deve combattere. (http://www.dailymotion.com/video/x340p8i)

 

SPOT ANTIRAZZISTI

A fare da contrappunto agli spot pubblicitari come "L'uomo del Monte", sui quali il Gruppo ha lavorato a una lettura critica in funzione interculturale,

si propone una breve sitografia di spot antirazzisti:

https://www.youtube.com/watch?v=ImoMy9xbr88

Mandela dance

https://www.youtube.com/watch?v=O5VS-Zz6qyk

Vorrei essere a righe

https://www.youtube.com/watch?v=lzpIko1Zijk

L’uomo nel baule

https://www.youtube.com/watch?v=DMWmQWlW_yQ

Omaggio a Jerry Masslo

http://video.tiscali.it/canali/Cine_e_Tv/Cortometraggi/578.html

Prigionieri della Casbah

http://video.tiscali.it/canali/Cine_e_Tv/Cortometraggi/525.html

La Casbah araba

http://video.tiscali.it/canali/Cine_e_Tv/Cortometraggi/550.html

Marocco blues

 

 

I MANIFESTI PUBBLICITARI

Una fonte molto utile per analizzare la rappresentazione dell’immagine dello straniero sono i manifesti pubblicitari. La pubblicità da una parte fa riferimento al pensiero comune, poiché per vendere un prodotto deve entrare nella testa della gente, parlando con le sue parole. Dall’altra, soprattutto negli anni a cavallo tra otto e novecento,

anni di scoperta dell’”altro” e dei prodotti collegati a Paesi lontani, tra esotismo e razzismo, il linguaggio dei “consigli per gli acquisti” è importante per comprendere

il modo di pensare di un’intera epoca.

Le reclame che utilizzavano più volentieri un linguaggio razzista per sponsorizzare i propri prodotti erano quelle di saponi e detersivi. Perché? Ovviamente

smacchiavano il nero. Per esempio troviamo un cartellone francese che recita “Lessive de la mènagére (la marca del detersivo) potrebbe sbiancare un negro”:

il manifesto (qui accanto) raffigura degli uomini neri che si “smacchiano a vicenda” per diventare bianchi. La donna, che presenta i tratti somatici dei neri ma la carnagione chiara, quindi evidentemente è già stata sbiancata, ride soddisfatta della sua nuova pelle. Naturalmente, i neri indossano solo delle tuniche miserabili,

usano un tronco d’albero come tavola e vivono in quelle che sembrano essere delle tende sullo sfondo di un paesaggio desertico. Si notano, insomma, tutti gli

stereotipi occidentali sull’Africa.

 

Sulla stessa scia ecco un’altra reclame di un sapone, questa volta però, made in USA (qui accanto):

un ragazzino bianco, vestito classicamente alla maniera della buona borghesia anglosassone, fa il bagnetto ad un bimbo di colore il quale,

incredulo, si guarda allo specchio e, compiaciuto ed entusiasta, esulta per aver perso il nero e scoperto che anche lui può essere  bianco

come i bimbi “per bene”.

Il messaggio promozionale recita “Ho trovato il sapone giusto per le mani e per la carnagione”.

 

 

 

Sempre di un sapone è la reclame che raffigura dei bambini neri che arrivano su di una barca e che recita

Saremo come il negro bianco”.

Questa pubblicità è molto triste per diversi motivi: innanzitutto per il desiderio di sbiancarsi dei bimbi neri,

come già visto nelle precedenti. Inoltre, i tre bimbi arrivano su una barca, immagine che porta alla memoria

momenti drammatici come la tratta degli schiavi, e le migrazioni a bordo dei “barconi” dei giorni nostri.

Viene naturale associare a questo cartellone pubblicitario le numerosissime foto dei bambini annegati nel

canale di Sicilia e in tutto il Mediterraneo che cercavano di attraversare proprio su una barca.

 

 

 

 

Qual è un altro prodotto che rende bianco il nero? La vernice:

La formula è sempre la stessa: bambini neri che cercano di diventare bianchi.

La scritta recita “Guarda come copre il nero! Vernice bianca Elliot”.

Queste pubblicità rappresentano molto bene il rapporto dell’Occidente con culture e identità diverse.

Non c’è l’odio dei “padroni di casa” nei confronti degli stranieri, ma il desiderio degli stranieri di diventare

come loro, esattamente la perdita dell’identità. Il pubblicitario (e il pubblico) bianco dà per scontato che un

nero voglia diventare come lui. Il nero non lotta per la propria identità, ma vuole essere bianco: e questi

messaggi pubblicitari (che intendono rappresentare il pensiero comune) sembra che dicano: “fosse così

semplice!” Ma noi siamo bianchi e loro sono neri. Il nero perde la sua identità perché la sacrifica per

diventare bianco. La gente pensa che il nero soffra della sua condizione: non quella politica, sociale o

economica, di cui soffre sul serio, ma quella di avere il colore della pelle scuro; quindi vuole smacchiarsi.

 

 

 

 

Molto significativa è una pubblicità di una marca di cravatte (vedi foto qui accanto):

dice “4 uomini su 5 sognano lo stile Van Heusen”. E chi è l’unico senza cravatta?

I quattro uomini bianchi sognano uno stile ricercato e vogliono la cravatta proprio

di quella marca; il nero non la desidera, perché è poco più di un animale, figuriamoci se

può desiderare una cravatta. Solo un negro può essere tanto incivile da non percepire

l’eleganza delle nostre cravatte, mentre il bianco sa come vestire.

 

 

 

 

 

 

 

 

Quelle che più fanno pensare sono le reclame che portano alla mente retaggi di più di un secolo

prima, l’epoca del colonialismo e dello schiavismo:

a parte il modo di raffigurare i neri, sempre molto caricaturale, con il naso e le labbra sproporzionate,

il disegno fa venire in mente lo zio Tom e il lavoro dei neri nelle piantagioni di tabacco. Come se

volesse dire: “fidatevi dei neri, loro conoscono bene il nostro tabacco, lo hanno lavorato per anni!”.

 

 

 

 

 

 

 

E ancora un sapone ma che, come la pubblicità immediatamente antecedente, non serve a smacchiare ma a ricordare pagine drammatiche

della storia americana: “T i piacerebbe pattinare con me?”

Due bambine nere che pattinano non su dei pattini, bensì su degli spazzoloni insaponati. Come le sguattere nere che lavavano le ville

degli schiavisti prima della guerra civile (ma anche dopo). Oltre al messaggio che i neri devono lavare a terra, è interessante notare come

sono state disegnate le due bambine: non di un colore realistico ma di un nero inchiostro o pece, quel nero che nell’immaginario è simbolo

del disprezzo, della cattiveria, dell’odio, della peste, di tutto quanto c’è di negativo nel mondo…

Però le nerette sono brave a pulire i pavimenti col nostro sapone.

 

 

Per concludere, un  manifesto che è il massimo dell’ingiustizia: “Viso pallido, la mia pelle è scura ma

il mio cuore è bianco. Per questo dono anch’io al Fondo Patriottico Canadese”.

I nativi sono stati sterminati, torturati, depredati di tutto, derubati , della loro casa, della loro terra,

della loro storia, della loro cultura, della loro vita: ma devono pagare la tassa al Fondo Patriottico,

di quella patria che li ha distrutti.

L’ingiustizia racchiusa in un cartellone pubblicitario.

 

 

 

 

 

Si è visto quanto influisca la pubblicità sul pensiero comune, creando un circolo vizioso: la pubblicità ci ordina cosa comprare, ma per farlo punta sulle nostre debolezze quindi utilizza il nostro modo di pensare e i nostri luoghi comuni, che finisce per consolidare. Il razzismo ha accompagnato il pensiero degli uomini per tutta la storia che viene definita “moderna”; e la pubblicità quando ha potuto se ne è servita, e quando può, se ne serve ancora.

 

WEB E RAZZISMO

Esiste uno stretto legame tra i media e l’immigrazione: non solo gli spot e la pubblicità giocano un ruolo importante in questa partita; anche i giornali, la televisione, il web e in particolar modo i social network sono responsabili della divulgazione del fenomeno migratorio. Quando si parla di immigrati, rifugiati o richiedenti asilo i giornalisti dovrebbero rispettare alcune regole che sono state raccolte nel 2008 in un codice deontologico, la “Carta di Roma”. 

 La Carta chiede infatti di adottare termini appropriati, di evitare informazioni sommarie, imprecise o distorte e di tutelare l’identità dei rifugiati e dei richiedenti asilo per evitare ritorsioni sui loro familiari. Alcune definizioni imprecise, dunque non corrette, dovrebbero essere evitate da chi si occupa di informazione, per non provocare danni e confusioni nel lettore/ascoltatore; “il clandestino” non è un richiedente asilo e in egual modo il “rom” non deve essere confuso con il nomade.

Questi errori, oltre a portare molta confusione, richiamano alcuni stereotipi che con il tempo si sono radicati e insediati nella nostra società. Mentre si guarda una partita di pallone in televisione, è facile ascoltare il presentatore che parla di un ” il giocatore africano”: ma precisamente da quale dei 53 paesi dell’Africa proviene il ragazzo? La generalizzazione provoca confusione, e la confusione non aiuta a capire, e talora spaventa.

Tra tutti i media, il web è quello che sta trovando maggiore spazio tra i più giovani, e non solo. Il potere di internet ci rende invisibili, cosi che ognuno di noi ha la possibilità di scrivere ciò che vuole e pensa, di mettere in rete notizie e informazioni. Il web è uno spazio aperto a tutti. Secondo quanto afferma il Dossier Statistico Immigrazione 2015, “il web fornisce di continuo a razzisti, nascosti dietro il monitor di un pc, terreno fertile per impuniti messaggi d’odio. Un insulto lasciato sotto un articolo online, un intero sito web razzista, un post offensivo su Facebook, un tweet o un intervento xenofobo in un forum, ha l’effetto di amplificarsi e modificarsi online, allargando a dismisura la sua portata mediatica e di incidenza sociale”. Per avere un like in più si è disposti a tutto, cosi che si può essere capaci di inventare delle intere notizie finte o “bufale” per tentare di raccogliere il maggior consenso sulla rete; spesso l’immigrato in quanto rientra nella categoria del “debole” viene preso di mira da questi “procacciatori” di like.

Per tentare di porre rimedio alla propagazione dell’odio razzista online, la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 24431/2015, ha stabilito che inserire un commento su una bacheca di un social network significa dare al messaggio una diffusione che potenzialmente può raggiungere un numero indeterminato di persone,

e “laddove questo sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie aggravata di reato di diffamazione” (cfr. Dossier Statistico Immigrazione 2015).

Navigando giornalmente su internet si trovano molti messaggi razzisti, leggibili e visibili da tutti.

Accanto sono riportati alcuni esempi raccolti su Facebook:

nel primo, l’immagine del Duce, il linguaggio e il tono del messaggio richiamano chiaramente la politica antisemita e razzista messa in atto dal governo fascista nella prima metà del 1900. A lato c’è anche un commento di una persona che condivide il messaggio e approva le dure parole riportate.

Nel secondo, una immagine presa da Facebook, che circola liberamente su internet, ed è visibile e consultabile da tutti. Oltre alla sostanza del manifesto, che pubblicizza il divieto discriminante emesso dal sindaco di questa città, si nota un lessico che rimanda ai peggiori stereotipi, e che accomuna “vu cumprà” e “mendicanti”.

 

 

   

        Dipartimento di 

         studi umanistici

 

  

            Cooperazione

Università Roma Tre

  

 

 

 

 

 

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